martedì 30 aprile 2013

L'IGNOTO SPAZIO PROFONDO (2005) di Werner Herzog



Mentre il prode GiocherGranpasso è chiuso nelle sue segrete (scrive con una piuma d'oca e calamaio, alla luce fioca d'un cero...) a redigere l'ultima sfavillante fatica speculatoria sulle trasposizioni in celluloide dell'opera di Amado, inauguriamo un nuovo filone, qua dai corridoi di CinematografiaPatologica.
Il Documentario. Disciplina cinematografica primigena, su cui ogni regista prima o poi cade o si esalta, vezzo intellettualoide o palestra per nuove imprese artistiche? Il documentario, si, quello naturalistico che si guardava, ammaliati dalla soave voce del narratore e dalle immagini divine, il lunedì sera a Superquark, oppure quello più pepato e shockante degli "anni 70" (i cosiddetti Mondo Movies) a mostrare stranezze culinarie particolari, modi di morire e gioire il sesso in giro per il mondo; oppure quello più impegnato e d'inchiesta alla Michael Moore che, più adulti si andava a vedere al cinema, spesso cadendo in strana fuffa complottista, a volte in divertenti squarci su realtà sconosciute o, ancora, la nuova tendenza al Mockumentary (sorta di sintesi tra la "realtà inscenate" dei MondoMovies  e l'attualità di quello d'inchiesta). Il documentario: forse il modo di fare cinema più diretto e vero...e, soprattutto in era digitale, è più vivo che mai.



Iniziamo questa nostra rassegna con L'IGNOTO SPAZIO PROFONDO (per gli anglofoni The wild Blue Yonder) di Werner Herzog del 2005, una Science fiction fantasy, ci dice il regista dai titoli di testa.
Una produzione AngloTedescoFrancese di 80 minuti per un vero e proprio esperimento cinematografico.
Un mockumentary di fantascienza, qualcosa di completamente diverso, diciamo noi...

Un alieno ( Brad Dourif), da molte centinaia d'anni sulla terra, giunto fino a noi dalla galassia di Andromeda, dal pianeta Wild Blue yonder morente, si confessa. Ci racconta come la sua gente (evolutissimi alieni) sia giunta fino a noi, perfettamente

giovedì 25 aprile 2013

DRIVE (2011) di Nicolas Winding Refn




Attenzione,Questa recensione farà arrabbiare il socio Giocher Granpasso!

In primis perchè va a spezzare la bella trilogia dei film tratti dai racconti di Amado, che con grande impegno sta curando.
In secondo luogo per ragioni sentimental-filosofiche... perchè ci eravamo, per troppo tempo, baloccati sopra l'idea di una doppia recensione, una delle nostre, coppia di vecchi rompicoglioni della Cinematografia (meglio se) Patologica, sopra l'opera  Drive di  Nicolas Winding Refn. In Essa, il sottoscritto, avrebbe dovuto (qualunque fosse stato il suo reale parere sul film non ancora veduto... ) parlarne male ed esecrarlo; mentre il prof. Grampasso, pur non apprezzandolo (a suo dire...) ne avrebbe dovuto incensare le lodi. Un esercizio di retorica! chioserà qualcuno. Invece niente. Dopo averlo visto,a quasi due anni dalla sua uscita...ed a circa un anno dal suo acquisto (in allegato a...sic...Panorama...), Non me la sento!! Ghivappo! Rifiuto la Disfida,si...
E' necessario parlarne a fondo e con la solita prosopea entusiastica e solitaria!!
Perchè questo film mi ha toccato per la sua estetica e la follia del messaggio.
 "E' un film per esteti." ha detto enigmatico Terenzio the Dragon a metà visione....
Come potrebbe essere altrimenti, quando anche i difetti sono esaltanti? Come si fa con quella colonna sonora? Quel grevissimo giubbottino grigetto...Come si fa? Quando si affronta autorialmente un b-movie,  citandone altri senza farsi accorgere, sbalestrando l'odience con utili lungaggini, dando nuove esaltanti immagini della città più cinematografica del mondo: Los Angeles. Come si può?
Non si può, perchè trovo che questa pellicola sia importante, per i tanti motivi che andrò a spiegare...quindi si fotta la retorica e l'esercizio di stile!!

Driver (Ryan Gosling) è uno StuntMan che lavora nella sempre fiorente

martedì 23 aprile 2013

GABRIELA (1983) di Bruno Barreto



E siccome in ogni trilogia che dir si voglia per bene mai viene a mancare l'episodio più strizzalocchio all'audience di grosso numero e grana, ove l'impianto passa in terzo piano in luogo ai nomi chiamati a comporre i vari settori della locandina, esile pretesto per fare bella mostra di talenti ed esercizi di stile, si alzi il sipario sul secondo film di questa serie, che segue il giusto ordine di pubblicazione editoriale dei libri dello Steinbeck latinoamericano ma l'inverso per uscite e manifatture cinematografiche.
Non ci si fa mancare nulla: attore di grido e di solida preparazione alla parte non foss'altro per i precedenti lavorativi, protagonista femminile rodatissima nel ruolo, spigliata e spogliata, sogno umidiccio di tre continenti rasponi, regista assodato ed uso a luoghi, sfondi, temi e soggetti, colonna sonora composta in omaggio da artisti di fama mondiale (in Brasile), fotografia saldamente in mano ad un bestione-one di categoria.
Molte sono le accomunanze tra Jorge Amado e John  Steinbeck, grossomodo coevi, dalla produzione severamente scissa tra impegno di denuncia sociale  ed epopea fiabesca e scanzonata dell'Umile più a terra, non ultima la somiglianza nell'infausto tenore rispetto allo scritto delle trasposizioni filmiche delle loro opere, anche quando intenzioni ed attrezzature furono di prim'ordine. Nemmeno l'amicizia con un Presidente degli Stati Uniti di peso come F.D. Roosvelt, le collaborazioni con Elia Kazan e Lewis Milestone, interpreti quali James Dean, Marlon Brando e Spencer Tracy hanno salvato il Gringo premio nobel per la letteratura dall'ingiustizia scenica di cotanta incresciosa capacità di prosa, infatti.
Qui, a differenza di quanto già detto per il Bahiano, nemmeno si può parlare di film dedicati esclusivamente all'apprezzamento dei suoi adoranti lettori. Anzi, l'opposto.
Sono spesso però le pellicole meno abbarbicate all'opera originaria, che consentono una fruizione più a là paje, meno svaccatamente riservate ad un pubblico di soli letterati come quella con cui ho esordito la volta scorsa, grazie a caratteristiche che compongono indistinguibilmente pregi e difetti del film.
Gabriela, garofano e cannella fu il primo passo di Amado in un universo scevro dalla polvere impastata di lacrime e sudore delle piantagioni di cacao dell'interno, verso le rive dell'Atlantico, i suoi porti nascenti dell'inizio novecento, pieni di colori, aria e luce.Nella trama e nei singoli personaggi troviamo gli embrioni di quasi tutte le caratterizzazioni delle opere successive, frutto del meticoloso studio formale da intellettuale di sinistra dell'etnologia meticcia del suo paese, composta da ricchi latifondisti, commercianti di frontiera e tutto il poverissimo resto della popolazione.
Ambientata nel '920 e intorno a Ilheus, scalo commerciale per l'Oro Bruno, il cacao, dono e dannazione di una terra selvatica e avara di altro, la storia è incentrata su di una giovinetta approdata dall' interno arido senza una speranza fino alla darsena degli schiavi, dove ogni diseredato pezzente si riversa per offrirsi in un libero mercato di schiavi, sguattere, soldataglia.Qui la trova Nacib Saad (Mastroianni) turco/siriano/si-insomma-quella-zona-del-mondo-lì, ma di madre partenope, proprietario del Bar Vesuvio, centro ricreativo e associativo del paese.E' alla ricerca di una cuoca, di cui è rimasto sprovvisto, e non ha  la minima idea nè di come fare a selezionarne una, nè di cosa gli stia per capitare. Nota la gentilezza verso una nonnina affranta di un'arruffata ragazza coperta di tutta la polvere dei chilometri macinati, le crede sulla parola riguardo alle doti culinarie, e senza pensare a nient'altro se la porta a casa.


venerdì 12 aprile 2013

CAPITANI DELLA SPIAGGIA (2011) di Cecìlia Amado


Quel satanasso del  meu Compadre dottor Massis ha l'insana abitudine consolidata di interfacciarsi a tradimento con sinapsi sopite della mia cervellotica volta cranica, scatenando turbini impazziti di contenuti concettuali selvatici e ingovernabili. Solitamente, quando avveniva l'irreparabile in ere più civilizzate, la risolvevamo a facce pari tirando al nascere del sole: sua la responsabilità del fenomeno, suo l'onere di imbrigliarlo.Una boccia di bacche scure distillate tra noi, del fumo.
Ma gli odierni son forse tempi urbani?
Ragion per cui eccomi qui sopra ad inaugurare una trilogia inversa cronologicamente, perversa artisticamente, confusa dialetticamente, ostica stilisticamente, debordante emozionalmente: tre film tratti da altrettanti capolavori di uno stesso autore, Jorge Amado; il più grande narratore sudamericano dell'ultimo secolo abbondante. Garcia Marquez spostati da davanti fammi la cortesia, Borges sei un rimasticatore.
Assicuro e spergiuro che ce l'ho messa tutta, per non arrivare a questo.Tutto è iniziato innocentemente nei commenti di Tropa de Elite., per ambientazione ed argomento indubbiamente ispirato alla produzione impegnata d'inchiesta di cui fu pioniere l'Amado meu. Capo a una settimana, il violentissimo peso stilistico dell'illustre bahiano aveva già prodotto i suoi effetti, nella recondita leva che mi ha portato a confrontarmi con una perla della mia gioventù, come spiegato lì in calce. Poi gli eventi sono precipitati.
C'è pure che il massiccissimo seguito della pellicola recensita dal sobillante Medico (TdE 2- il nemico ora è un altro) nel 2010 ha strappato per successo ed incassi lo scettro di  Più Visto & Amato della Storia dell'Orbe Carioca proprio al film che concluderà questa trilogia: Dona Flor e i sui due mariti (1976) viemmediciotto, il suo prodotto più noto. Quando ho scoperto l'esistenza di ben 10 altri ulteriori riversamenti in video, ho vissuto la stessa identica esperienza di cui ho già parlato qui. Curiosamente , anche i lungometraggi in oggetto presente dovrebbero avere, a posto dello spazio riservato al regista dopo il titolo, un sommario e sbrigativo -  di Maachicaspitavuoicheimporti l'ha scritto... perchè parliamo di opere girate, prodotte, interpretate e distribuite da adoratori degli scritti originari, destinate a fanatici lettori degli stessi.Senza nemmeno porsi millenari e sempiterni dilemmi traspositivi Carta Vs Celluloide, qui si tratta esclusivamente di fruizione elitaria e circoscritta a chi i libri in questione li ha amati, riletti, compresi, mangiati, mandati a memoria. E sono legioni.
Io sono tra loro; lo sono al punto da essermi visto questo Capitães da Areia, diretto dalla nipote dell'Autore due anni fa (appositamente per la celebrazione del Centenario della Nascita del Nonno) direttamente in Bahiano de Rua stretto ed analfabeta, senza sottotitoli nemmeno in finnico sud orientale, potendolo seguire tranquillamente, emozionandomi. Se le mie affannosamente curate ricerche non hanno fatto cilecca, dubito persino che esista una versione in idiomi vagamente più comprensibili.


I Capitani della Spiaggia sono I Meniños de Rua di São Salvador da Bahia de Todos os Santos,